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Musica e Critica Musicale: Due Linguaggi Incompatibili?
di Enrico Fubini
C'e sempre stata una certa diffidenza da parte dei musicisti nei confronti della critica musicale. Alla base di questa diffidenza vi è l'idea che il linguaggio della musica (ammesso che la musica sia in qualche modo un linguaggio) sia intraducibile. Il lavoro del critico sarebbe perciò distruttivo, inutile e dannoso perché non farebbe altro che cercare di ripetere, spiegare, analizzare, dissezionare l'opera d'arte con strumenti del tutto inadeguati (cioè con il linguaggio verbale). Cercare di tradurre verbalmente una composizione musicale è pertanto, secondo questo punto di vista, un vero.e proprio assurdo che tende solamente a distruggere e a distorcere gli autentici valori e significati della composizione musicale. Non solo i musicisti in genere, e non solo quelli romantici, hanno manifestato questa diffidenza per la critica, cioè per tutti i tentativi di mettere in atto un discorso sulla musica ma gli stessi filosofi hanno per lo più, anche se in modo diverso, espresso la medesima opinione, cioè sulla sostanziale intraducibilità della musica. Lo stesso dubbio potrebbe sorgere forse anche per le altre arti ed in effetti è stato a volte espresso, ma indubbiamente con minore forza e con molti distinguo. La poesia e la letterature sono sì arti a egual titolo della musica, ma sembra più legittimo fare un discorso sulla poesia, dal momento che il poeta usa lo stesso linguaggio di cui si serve il suo critico. Per cui, di fronte alla difficoltà di tradurre il discorso poetico in discorso critico, si può sostenere che la poesia può sempre essere parafrasata, cioè spiegata, illustrata analizzata, perchè il critico si serve dello stesso linguaggio che usa il poeta, dice in modo non artistico ciò che il poeta dice con linguaggio artistico. Non vi è pertanto la stessa estraneità o eterogeneità di linguaggio che vi è nel caso della musica: cosa vi è in comune tra il linguaggio verbale del critico e quello artistico e musicale del musicista? Le regole che reggono il linguagio dei suoni cosa hanno in comune con la grammatica e la sintassi del linguaggio verbale? Con quale diritto dunque il critico fa un discorso sulla musica? e con quali risultati?
Se si pensa alle ben note diffidenze romantiche di fronte alla critica in generale e all'atteggiamento del critico che tende inevitabilmente a distruggere l'opera con il suo implacabile occhio analitico che vede ogni minuzia ma perde di vista l'unità e la globalità dell'opera che può essere afferrata solamente con un atto di empatia, non stupisce che in.quest'ottica siano preferibili discorsi di tipo poetico, impressionistici e metaforici sulla musica, discorsi indubbiamente imprecisi e poco ‘scientifici' ma ben più pregnanti e vicini all'essenza stessa dell'opera d'arte. Ma raramente si pone mente al fatto che Hanslick, con la sua estetica formalistica, che si dice abbia aperto le porte ad una critica e ad una storiografia `scientifica', meno fumosa e più aderente all'opera e alla sua struttura
rispetto ai voli lirici dei romantici, in realtà non faccia ch'e codificare in modo rigoroso 'impossibilità di parlare della musica e quindi in definitiva una qual certa illegittimità della critica stessa. "Nella musica c'è senso e logica, ma `musicali'; essa è una lingua che noi parliamo e comprendiamo, ma che non siamo in grado di tradurre" (trad. italiana, Milano 1945 p. 87): così scriveva Hanslick in una ben nota pagina della sua opera Il bello musicale, e affermava ancora, precisando lo stesso concetto: "la lingua dei suoni è eternamente intraducibile... perché i suoni non solo sono ciò con cui la musica si esprime, ma anche sono l'unica cosa espressa" (Ibid. p. 188). Con ciò Hanslick affermava lapidariamente l'idea che dalla musica non si esce, che della musica si può parlare solo musicalmente, che i pensieri espressi dal musicista sono intraducibili perchè si tratta solo di "pensieri musicali" altrimenti inesprimibili. Il fondatore della `Musikwissenschaft' ha dunque teorizzato in modo rigoroso non la scientificità della critica musicale ma piuttosto la sua impossibilità.
La critica musicale riflette ancora, nella sua storia recente, questa impasse dal momento che sembra oscillare tra due posizioni estreme ed ambedue per certi versi inaccettabili al lume del comune buon senso: da una parte una critica metaforica, `poetica', non scientifica, che in qualche modo ruota attorno all'opera musicale, senza mai afferrarla, una critica che cerca di rievocarla, o meglio che cerca di rievocare a parole e quindi in modo inadeguato e impreciso, le impressioni che la musica suscita nell'ascoltatore e l'esperienza di vita da cui è nata: dall'altra una critica cosiddetta analitica, che vuole illustrare l'opera d'arte partendo dal come è fatta, come se fosse un utensile o un manufatto, ma senza mai giungere al cuore dell'opera stessa; è un altro modo di girare attorno all'opera senza riuscire in alcun modo a coglierla nella sua essenza, nella sua totalità. Ma questo tipo di critica teorizza anche l'irrilevanza di qualsiasi altro tipo di analisi che non sia oggettiva, cioè scientifica, che non si attenga ai fatti, prescindendo dal valore. La descrizione di come un'opera è fatta, o detto in termini più attuali, la decifrazione della sua struttura, sarebbe del tutto esaustiva e al di là di essa non si può andare, sostengono sempre i critici analitici, senza scadere nelle chiacchere irrilevanti.
Questo discorso pecca evidentemente di schematismo ma serve unicamente per mettere in luce le difficoltà in cui s'imbatte ogni discorso sulla musica che viene a trovarsi inevitabilmente preso tra queste due alternative, entrambe assurde anche se per motivi diversi e opposti. Perchè dunque entrambe assurde? E' vero che entrambe le prospettive critiche mettono pertanto in luce le difficoltà di qualsiasi discorso critico sulla musica evidenziandone il rischio di vacuità inerente a discorsi critici che comunque mancano l'obbiettivo, limitandosi a girarci attorno senza mai centrarlo; al tempo stesso, pur nella chiara coscienza di questa difficoltà la critica musicale non ha mai cessato di
essere esercitata con maggiore o minore successo. Ciò significa che nonostante tutto della musica si può parlare, anche se con difficoltà, e a volte persino con espressioni sensate, con un linguaggio che rivela pur sempre aspetti del tutto pertinenti dell'opera musicale stessa. Si dovrebbe forse da ciò arguire che tutto quanto si è detto in precedenza sulla difficoltà o addiritura impossibilità di parlare della musica a causa della totale eterogeneità dei due linguaggi è falso o che contiene qualche errore?
Forse la critica musicale corre sempre sul filo dell'insignificanza, della vacuità, della retorica, o, per contro del tecnicismo inutile e privo di relazione con l'essenza intima dell'opera, e ciò proprio a causa di questa profonda eterogeneità non solo tra un linguaggio artistico e un linguaggio non artistico (problema presente per ogni discorso critico su qualsiasi arte), ma tra due linguaggi che adottano tipi di articolazione profondamente diverse. Il problema si potrebbe ridurre in definitiva alla possibilità e alla liceità della traduzione in senso lato. Traduzione non solo da una lingua ad un altra (ed è noto quanto già sia problematica la traduzione ad esempio di una poesia), ma traduzione in senso ben piu radicale. Nel caso della musica si tratta infatti di tradurre o meglio di trasporre da un linguaggio ad un altro linguaggio radicalmente diverso, dal linguaggio dei suoni a quello delle parole: si tratta di mondi linguistici diversi. Epure se il discorso critico sulla musica si è sempre sviluppato ed anche fruttuosamente in vario modo nel corso del tempo, ciò dimostra se non altro che ci deve pur essere un qualche minimo comune denominatore tra i due mondi liguistici tale da rendere possibile il passaggio da uno all'altro, una qualche forma di comunicazione tra le due aree linguiitiche o forse un qualche ur linguaggio all base di entrambi. Certo è che sia il modello di critica scientifica, nela tradizione della Musikwissenschaft, o in termini piu moderni la critica
strutturale, analitica, sia il modello intuizionistico, metaforico, espressivo, che ricerca i significati per via impressionistica, pur nei loro rispettivi difetti, entrambi i modelli dunque, affermano pur sempre qualcosa di pertinente riguardo all'opera musicale. Ognuno può cercare e trovare in queste e in altri modelli di discorso critico quello che più desidera trovare, ma è innegabile che troverà in ogni caso qualcosa che riguarda più o meno da vicino l'opera che si lascierà perciò disvelare, spiegare, anche se in modo incompleto e insoddisafacente, dal critico. Pertanto, ci si chiede, quale può essere l'anello di congiunzione tra opera musicale e discorso critico sull'opera, l'elemento comune che rende posiibile il discorso sull'opera, anche se non esaustivo, anche se mai del
tutto soddisfacente?
Si è dato per scontato sin qui che l'opera musicale sia un linguaggio, anche se in realtà tale affermazione non è per nulla scontata: non è affatto detto che la musica sia un linguaggio nel senso comune del termine e bisognerebbe comunque verificare qualisiano le condizioni per cui la musica possa dirsi un linguaggio. Anni or sono, Th. W. Adorno scrisse in un ben noto saggio una pagina illuminante su questo problema e può essere utile ricordarla in questa sede. "La musica - scriveva Adorno - tende al fine di un linguaggio privo di intenzioni. La musica priva di ogni pensare, il mero contesto fenomenico dei suoni, sarebbe l'equivalente acustico del caleidoscopio. E al contrario essa, come pensare assoluto, cesserebbe di essere musica e si convertirebbe impropriamente in
linguaggio..." (Del presente rapporto tra filosofia e musica in "Archivio di Filosofia"). La soluzione prospettata da Adorno è come sempre dialettica, offre pertanto un utile e stimolante prospettiva su cui riflettere. La musica, secondo la prospettiva adorniana, sembra essere in bilico tra una condizione a-linguistica e una situazione linguistica. Accettando questo punto.di.vista, si spiegherebbe in tal modo il motivo per cui i due tipi di discorso sulla musica sopra schematizzati, si presentano entrambi come pertinenti ma al tempo stesso insoddisfacenti. La critica scientifica
farebbe leva sull'aspptto linguistico della musica, ma radicalizzandolo; allo stesso modo la critica che potremmo chiamare intuizionistica farebbe leva sulla condizione a-linguisticadella musica, ugualmente radicalizzandola.
Difficile o forse impossibile una soluzione equilibrata, che tenga conto della natura complessa o forse ambigua della musica e che possa perciò restituirci il tuto, la integrità organica del discorso musica1e. Forse tale critica sarebbe essa stessa una nuova opera musicale! riconfermaddo così l'impossibilità di parlare della musica. Se le due vie praticate dalla critica, da una parte la metafora con tutte le sue arditezze e l'implicita confessione che non si può penetrare nell'opera altro per vie indirette e dall'altra la mera descrizione della struttura, della trama linguistica, con l'implicita confessione che non si può far altro che rimanere in superficie e negando peraltro che vi sia un secondo strato che ci sfugge, due vie rappresentano dunque in qualche modo le due facce della musica, e cioè il suo lato ineliminabilmente naturalistico e quello ineliminabilmente linguistico. Forse è la condizione di tutti i linguaggi, quella di operare, come afferma Levi-Strauss (cfr. Il crudo e il cotto, introd., Trad. italiana, Bompiani, Milano 1966), su due livelli, su due trame: ma la peculiarità della musica è che una delle trame è alinguistica o per usare un altro termine, anche se impreciso e in qualche modo equivoco, naturale, istintivo, pre-linguistico, non convenzionale, mentre la seconda trama è linguistica, convenzionale e storica e riguarda quella che comunemente si chiama la sintassi della musica. Tali livelli in qualche modo si oppongono, si intersecano, si richiamano l'un l'altro di continuo; pertanto il grado di preganza significativa raggiunta da qualsiasi linguaggio deriva proprio dall'opposizione, dall'intreccio e dal confronto di due trame. Inoltre, se nel linguaggio ordinario l'equilibrio tra le due trame è più stabile, più istituzionalizzato, nel caso della musica invece è messo di continuo in gioco il rapporto tra le due trame e viene operato un continuo rimando alle radici più oscure, ai livelli più profondi della coscienza, quelli meno istituzionalizzati e meno convenzionali. Inoltre nella musica l'equilibrio tra le due trame è più problematico, provvisorio, mai definito una volta per tutte, e forse ogni opera deve ritrovare un nuovo equilibrio nel gioco di opposizione tra le due trame, quella naturale e quella linguistica e sintattica. Le due trame, per continuare ad usare il linguaggio di Levi-Strauss, sono in perenne tensione tra loro, in una specie di perenne lotta volta ad indebolire o ad annullare l'altra. Nella musica contemporanea, come analizza con acutezza Levi-Strauss, si sono coltivati attivamente due miti opposti: nella musica seriale si è sognato di una musica che operasse solamente sulla trama linguistica, negando la necessità della compresenza dialettica dell'altra dimensione della musica, quella naturale e istintuale. Altre correnti della musica contemporanea hanno coltivato il sogno opposto e simmetrico, ma altrettanto radicale e utopistico è cioè di lavorare ancora su di una sola trama, quella naturale, priva di qualsiasi strutturazione, abbandonandosi cosi al sogno bruitistico, all'aleatorietà più radicale, all'abolizione di qualsiasi gerarchia e distinzione tra suono e rumore. Il risultato di entrambe le utopie è stata una sorta d'incomunicabilità e diperdita di significato.
Si è spesso detto che la musica dei nostri tempi era difficile, molto difficile, ma che col tempo ci sarebbe diventata famigliare, più facile ad orecchie, che si fossero abituate a questo stile, così come era capitato per la musica classica, ricordando che ai loro tempi erano difficili anche Bach e Beethoven. Ma così non è avvenuto: la musica contemporanea, in buona parte era difficile ed è rimasta difficile. Ma il motivo chiaramente non è lo stile con cui non ci si sarebbe ancora familiarizzati, ma piuttosto un qualche incidente genetico originario, o, fuor di metafora, il tentativo dei musicisti di creare opere musicali in cui è stata abolita una delle due trame su cui opera il linguaggio musicale e forse ogni linguaggio possibile per l'uomo. Ma, a parte il problema del tutto specifico della musica contemporanea, non si può non osservare che la musica si è sempre mossa tra questi due poli, realizzando equilibri sempre instabili e provvisori, ma densi di stimoli significativi di proposte nuove e di significati inediti. Nel corso della sua storia tuttavia la musica è sempre stata soggetta alla tentazione di negare o la trama naturale o quelle linguistica e convenzionale e non è certo un fenomeno proprio della musica del Novecento, anche se si è manifestato nel nostro secolo con un maggiore radicalismo. Quante volte, in tempi anche molto lontani, la musica.è stata accusata di abbandonarsi al cerebralismo, al puro gioco 1inguistico, di perdere di vista la sua funzione espressiva, il suo rapporto con l'interiorità dell'uomo; e altrettante volte è stata invece accusata di non tenersi fedele alle regole e alle leggi proprie del linguaggio musicale e di sacrificare la correttezza linguistica, la tradizione ed in definitiva la bellezza per una mal posta smania espressiva. Basta sfogliare i dibattiti e le querelles musicali tra fautori dell'Ars Nova e fautori dell'Ars Antiqua, o tra i fautori della Prima Prattica e fautori della Seconda Prattica, tra Monteverdi e l'Artusi, o ancora tra buffonisti e antibuffonisti per rendersi conto che al fondo di queste polemiche vi è sempre lo stesso probtema: il richiamo severo per l'abbandono o per la negazione programmatica dell'una o dell'altra trama di cui è costituita la musica.
Ma torniamo ora all'argomento centrale di queste pagine: la possibilità della critica o comunque di un discorso sulla musica che sia pertinente al suo oggetto. Forse si potrebbe ampliare il tema di queste riflessioni parlando non tanto della critica in senso stretto, ma più in generale della risonanza della musica nel soggetto. E' fenomeno noto che esistono persone del tutto sorde alla musica, persone a cui non manca pertanto l'intelligenza e la sensibilità per altre arti come la letterature o la pittura. Tali persone sono inoltre in larga misura ineducabili alla musica, nel senso che anche se si cerca di renderle edotte delle vicende storiche della musica, del suo linguaggio, della sua grammatica e sintassi, purtuttavia continuano a mostrare un'indifferenza di fondo ed una pressocché totale sordità di fronte al fenomeno musicale. E per contro vi sono persone di scarsissima culture ma dotate di grande sensibilità musicale, di prontezza istintiva a recepire il mensagio di cui è portatore l'opere musicale, pur non possedendo che scarse informazioni culturali in merito. Come spiegare questo strano fenomeno, limitato però solemente alla musice? Quanto detto precedentemente può forse spiegere in buona parte questo fenomeno. La musica, più di ogni altre arte, affonda le sue radici in una piega del nostro essere pre-logico, pre-storico, istintuale, che trova rispondenza negli strati più profondi della nostra sensibilità, potremmo dire nei livelli pre-linguistici del nostro io.
I fenomeni di sordità alla musica non sono dunque, per lo più, di origine culturale, come accade in genere per lo altre arti, ma piutosto di origine, potremmo dire, naturale. Adorno parlava, nel saggio già citato, di carattere enigmatico della musica, "la cui essenza non è così univocemente delineata come quella di eltre espressioni d'arte, e perciò non avvince con egual forza il soggetto ricevente". (Ibid. p. 33) Potremmo aggiungere che è vero, come si è detto, che avvince molto scarsamente alcuni soggetti ma è altrettanto vero che avvince altri soggetti con molto maggiore forza e immediatezza rispetto ad eltre arti. La comprensione della musica, beninteso negli esseri sensibili alla musica, richiede dunque quell'incontro simpatetico, quella rispondenza immediata tra quel fondo oscuro, istintivo, tra i ritmi dell'interiorità e del proprio essere animalesco e naturale e la trama a-linguistica, non convenzionale, e per così dire naturale, della musica stessa. Ascoltando la musica risponde come un eco dentro di noi per cui il nostro io più profondo si riconosce negli accenti, nelle curve melodiche, nei ritmi della musica, indipendentemente dagli stili, dai linguaggi, dalle convenzioni di cui è pur intessuta la musica. Ma si tratta di un primo livello di comprensione, quello da cui non si può prescindere, quello senza di cui non esiste possibilità di accesso all'opera musicale. Deve intervenire un secondo livello di comprensione, quello che ci permette di entrare nel linguaggio musicale vero e proprio, di capire, di cogliere anche a livello intellettuale la specificità stilistica, storica e culturale dell'opera musicale. Senza questo livello di comprensione, che ovviamente solo astrattamente si può considerare separato dal primo, la musica si ridurrebbe al cri animal a cui alludeva Diderot, espressivo senza dubbio, ma privo di articolazione, privo dunque di possibilità di comunicazione altro che per via intuitiva e a-razionale. Ma possibilità di comunicare che cosa? I sentimenti? Le idee? I concetti? Il linguaggio ordinario non è forse più idoneo, meglio attrezzato per comunicare tutto ciò? 0 forse la musica comunica solo il piacere della percezione della sua complessa e perfetta organizzazione? La questione non è certo nuova, e almeno dai tempi di Hanslick, viene ampiamente dibattuta: la musica è pura forma o la musica è innazitutto espressione?
Alternativa impossibile a risolversi altro forse che con una risposta dialettica, come ha tentato Adorno. La musica afferma ancora efficacemente Adorno "simile a una Sfinge, si fa beffe di chi la studia con l'incessante promessa di significati, che concede anche di tanto in tanto; ma questi sono ad essa, nel senso più vero, mezzi per la morte del siqnificato, e in essi perciò la musica mai si esaurisce. Finché essa si svolgeva in un insieme di tradizioni in certo modo chiuso, come quello degli ultimi trecentocinquant'anni, l'irrisolvibila che è in lei, che suqgerisce ogni significato e non ne intende propriamente nessuno, poteva rimanare nascosto. Nella tradizione era inclusa l'esistenza della musica, ed essa era data come cosa ovvia pur nelle più avvincanti e sorprendenti esparienze. Ma oggi che la musica non è più sostenuta dalla tradizione, la sua enigmaticità viene alla luce debole e indigente come un punto interrogativo e si contorce non appena le si chiede di dichiarare che cosa propriamante essa comunichi" ( Ibid. p.34). La musica, si potrebbe dire, non siqnifica nulla ma volteggia in prossimità del significato, tende verso il significato, ma se lo raggiungesse cmpiutamente, serebbe la fine della musica stessa. Ancora Adorno afferma: "La musica non ha il proprio oggetto, non possiede il nome, ma tende ad esso e anche perciò è protesa verso il proprio sfacelo. Se la musica giungesse per un istante al punto intorno a cui volteggiano i suoni, questo sarebbe il suo compimento e la sua fine. Il suo rapporto con quello che essa non vuole raffigurare ma solo evocare è quindi infinitamente mediato" (p. 34). Il discorso del critico sulla musica può essere dunque un modo di rendere esplicito ciò che nella musica non è e non deve mai essere esplicito, ciò che costituisce per l'appunto il carattere enigmatico e indicibile della musica stessa, indicibile per lo meno dal punto di vista della musica. Si può capire ora perché i musicisti hanno sempre avuto una grande diffidenza nei confronti della critica, operazione che porta alla vivisezione dell'opera, che uccide e priva della vita un organismo vivente. Infatti risolvere l'indicibile della musica in un esplicito discorso significa per l'appunto la fine della musica e purtuttavia tale discurso è pertinente all'opera musicale, ci dice qualcosa che indubbiamente riguarda l'opera stessa e che perciò può rappresentare un utile ausilio didattico per avviare all'ascolto della musica.
Tante volte è stato detto che la musica è un linguaggio, ma un linguaggio sui genenris perchè non possiede vocabolario anche se in qualche modo significa; è stato detto che i suoi simboli sono iridescenti, autopresentazionali, mentre quelli del linguaggio ordinario sono trasparenti e si risolvono totalmente nel significato; e d'altra parte le teorie formalistiche della musica si sono sempre preoccupate, sin dai tempi di Hanslick, di attenuare in qualche modo la rigidezza e unilateralità della dottrina affermando che la musica è sì pura forma ma ricca di significato, che la musica anche se non esprime nulla, riflette la dinamica dei sentimenti ecc. Queste preoccupazioni rivelano che comunque la musica è indubbiamente per certi aspetti simile al linguaguagio, tende alla condizione del linguaggio, ne mima la funzione e la struttura, ma che d'altra parte non potrà mai essere come il linguaggio, pena la sua fine ed estinzione in quanto musica. Il linguaggio con la sua precisione denotativa, con la sua capacità di comunicare significati si muove nel dominio delle convenzioni, dell'oggettività: i significati emergono per l'appunto dalle due trame, entrambe convenzionali, in cui si muove il linguaggio. La musica invece, come già si è detto, si articola sì su due trame, come il linguaggio, ma una di queste trame è rappresentata dal naturale, dal pre-razionale, dal pre-linguistico. Perciò non potranno mai darsi nellamusica significati definiti, come nel linguaggio, ma solo - come dice Adorno - un volteggiarre attorno ai significati, un mimare com i propri movimenti, possibili significati, un alludere ad essi. Ma forse proprio qui si fonda la difficoltà ma al tempo stesso la possibilità per la critica di parlare della musica, di tentare di rendere esplicito ciò che nella musica rimane costituzionalmente nascosto e inesplicito, ma che pur esiste sotto un enigmatica e affascinante spuma di allusioni, di interrogativi, di inviti verso il significato e contemporaneamente un perene sfuggire da essi...
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