Torna "L'infernale Quinlan" e stavolta è l'originale.
La rivista americana Premiere ha definito L'infernale Quinlan-Touch of Evil il miglior film del 1998. Rimontato secondo la volontà di Welles e uscito nelle sale americane l'anno scorso, il film ha incassato più che nel 1958, quando la Universal lo distribuì come un prodotto di serie B. Ora lo possiamo rivedere anche in Italia, in edizione originale con sottotitoli. Un'occasione imperdibile per chiunque ami il cinema.
IL FILM L'infernale Quinlan nacque come un poliziesco a basso costo tratto da un romanzo di With Masterson. Orson Welles non ebbe il tempo di leggere il libro e riscrisse in pochi giorni lo script mettendo in primo piano la figura di Quinlan, trasformando in messicano il poliziotto antagonista (Charlton Heston/Vargas) e in una bianca americana la moglie (mentre nel romanzo è il contrario). Ma il merito principale del regista fu soprattutto quello di realizzare con un budget da B-movie un'opera di straordinaria potenza drammatica e linguistica. L'infernale Quinlan racconta la storia di un poliziotto di origine messicana, Miguel "Mike" Vargas e di sua moglie Susan (Janet Leigh) i quali, fermatisi in una cittadina di frontiera durante il loro viaggio di nozze, si trovano coinvolti in una sporca storia di omicidi dietro la quale trama Hank Quinlan, corrotto capo della polizia locale. In questa "waste land" di confine ci sono luoghi d'abbandono fatti di ponti spettrali, lagune industriali, trivelle, serbatoi petroliferi e vecchi bordelli, balere allucinanti, sotterranei pieni di archivi e immensi spazi, piatte praterie interrotte da motel di second'ordine. Quando Quinlan entra in scena, intorno a lui sciamano una corte di sottoposti, vecchi sodali, notabili e l'impressione teatrale si fa forte: è l'entrata di un vecchio monarca o di un navigato cortigiano shakesperiano. Gli attori sembrano quasi rivolgersi direttamente al pubblico per testimoniare l'ammirazione che nutrono per lui e magnificare il suo potere in quella terra. Quinlan è Welles a tutti gli effetti: quando Marlene Dietrich, bruna e sfatta, nel ruolo della chiromante Tanya gli dice che il suo tempo è ormai scaduto è come se Welles godesse in un delirio sadomasochistico del suo dolore più grande, quello di non poter più fare film. Cosa che, più o meno, successe, almeno nei termini in cui si intende a Hollywood. C'è qualcosa di determinato e nevrotico nella volontà di potenza di Quinlan, così come c'è qualcosa di infantile e malinconico nella improvvisa manifestazione dei suoi sentimenti. Quando vede Tanya, le si rivolge come un bambino in cerca d'affetto e riparo più che di eccitazione: per tutta risposta lei lo rimprovera per aver mangiato troppi dolciumi ed essere diventato così grasso. Che bambino cattivo. La regia di Welles insieme alla fantastica fotografia in bianco e nero di Russel Metty trasformano un "noir" classico in un capolavoro. Tra le scene memorabili ricordiamo due piani-sequenza: il primo, a inizio film, di quattro minuti e trenta, è fra i più imitati della storia del cinema, citato e onorato anche da Robert Altman ne I Protagonisti; il secondo mette in scena l'interrogatorio di Sanchez nell'angusto spazio di un paio di camere. Spostando pareti, studiando al millimetro la distanza dalla macchina da presa di facce e corpi, disegnando come in una miniatura la composizione dell'inquadratura e soprattutto trascinando lo spettatore in una scena dialogatissima, che tutti i suoi interpreti ricordano come un tour de force micidiale ed esaltante, il regista dà vita ad una sequenza di straordinaria tensione e folle ritmo girata in una camera che sembra popolarsi all'infinto di corpi. IL NUOVO MONTAGGIO La Universal trovò il film incomprensibile e lo rimontò, aggiungendo delle scene girate da Harry Keller. Heston prima si rifiutò di girare sequenze non dirette da Welles (accollandosi l'onere delle spese delle giornate di ripresa non effettuate) ma poi cedette. Dopo l'uscita il film fu ulteriormente accorciato di 15 minuti. Ora lo storico Jonathan Rosenbaum e il montatore Walter Murch (premio Oscar per Apocalypse now) l'hanno restaurato basandosi sul memoriale che Welles aveva scritto ai produttori. Non è un montaggio d'autore, è solo ciò che Welles stesso avrebbe fatto nel 1958 per salvare il film. La cosa forse più vistosa è la mancanza dei titoli di testa nella sequenza iniziale; altre sequenze sono montate diversamente e quasi tutte le scene di Keller sono scomparse. Ironia della sorte, il restauro riporta alla luce un'opera solo in minima parte diversa da quella che conosciamo. Ci sono quindici minuti mancanti e la sequenza iniziale cambia sensibilmente di tono e di atmosfera, ma dei 50 cambiamenti che Murch ha apportato seguendo il memorandum di Welles, nessuno è così decisivo da farci saltare sulla sedia. Pertanto non guardate di nuovo il film per scrupolo filologico: andateci invece per rivedere su grande schermo un film memorabile, feroce, cattivo. LA SCENA MADRE Quando Welles/Quinlan uccide Tamiroff/Zio Joe, lascia sulla scena proprio ciò che finirà per incriminarlo: il bastone. Lacan (psicanalista), non avrebbe a questo punto nessuna difficoltà a chiudere il cerchio. Il bambino, nei primi mesi di vita, usa il proprio fallo come esca per attrarre la madre. Il cui desiderio è, sempre secondo Lacan, appagato solo da un sostituto del fallo che è il bambino stesso, il neonato. Forse è per questo che mi appare così terrorizzante il minuscolo corpo di Zio Joe sospeso su Susan come un atroce omaggio. Welles fece mettere all'attore delle lenti a contatto perché i suoi occhi potessero apparire vitrei, assurdi e clowneschi: il suo cadavere è una sorta di bambolotto osceno, il feticcio di un rito perverso e drammatico. «Non credo nell'inconscio, non mi piacciono le spiegazioni psicanalitiche» dice Rohmer. Ma poco più avanti aggiunge: «Quello che mi interessa è fare vedere in che modo la volontà può manifestarsi al di sotto di un'apparente indecisione». Proprio ciò che accade a Quinlan, che scopre solo durante e dopo l'uccisione di Zio Joe perché "c'è l'ha tanto" con Vargas, perché lo odia, perché si trova lì e ha provato tanto piacere a puntare la pistola contro il suo complice, perché ha sentito allora che era "impossibile" non ucciderlo. Se ne rende conto anche lui, stravolto, dopo aver lasciato sulla scena gli strumenti inutili per riconquistare di nuovo l'amore assoluto e incondizionato della madre. Il bastone. Il bambino. Nel film Quinlan uccide Zio Joe per non avere testimoni, ma la sua suggestione più profonda e segreta è che lo uccida in preda ad un istinto che lo porta disperatamente a riprodurre un rito primordiale in cui l'amore è ottenuto con uno scambio di doni che è l'equivalente di un'offerta illimitata, di un abbandono assoluto e disperato. Di certo Tamiroff, e in ciò sta la grandezza della sua interpretazione, appare più stupito che terrorizzato, come se vedesse Welles per la prima volta, ed è questo che lo paralizza impedendogli di sottrarsi al proprio assassinio, Di certo Quinlan non osa mai per un solo momento "guardare" Susan nel film se non quando questa non può vederlo. Susan, d'altro canto, non vede mai Quinlan ed è l'unico personaggio del film a non comparire al suo cospetto. Ma quando succede e Susan gli compare distesa su un letto, di fronte ai suoi occhi esplode la follia del vecchio re. Alla fine della sequenza Quinlan è più sconvolto per ciò che ha fatto o per aver capito "perché" lo ha fatto? WELLES-BOGDANOVICH Bisogna diffidare per principio delle letture che spiegano troppo ma è sconcertante, oltre che scorretto tacerne, nel momento in cui tutti i dettagli, come in un film, finiscono al posto giusto. A pagina 327 di Io, Orson Welles, (Baldini & Castoldi, 1996), libro di conversazioni con Peter Bogdanovich curato da Jonathan Rosembaum, a proposito di questa scena Welles dice: «E' una scena molto sgradevole, orrenda. Mi sono sentito malissimo dopo. E' perversa, morbosa. Non è che mi piaccia, fare quel genere di cose. Ma bisogna fare così, senza mezze misure, nel genere schifezze e morbosità. Tamiroff è grandioso in quella scena: quando la guarda, quella pistola diventa tutti i cazzi mai esistiti nella storia. Faceva paura come la guardava». E' l'unico punto, a mia memoria, in cui Welles si sia mai espresso in questo modo (e usando un lessico del genere), ma è anche l'unico del libro in cui si lancia senza preavviso in un'interpretazione grossolanamente psicanalitica, quando per tutto il lungo dialogo con Bogdanovich, durato diversi anni, si guarda bene dall'essere preso in trappola da qualsiasi interpretazione dei suoi film in cui il suo interlocutore cerchi di coinvolgerlo. Il fallicismo latente in tutta questa sequenza di folle amore e folle violenza rappresenta lo sbocco improvviso di una materia buia e profonda che irrompe nella scena e invade senza resistenza lo sguardo pieno d'acume e destrezza che il film ha sin dall'inizio, come un getto di sangue in una polla trasparente. Touch of Evil lavora senza sosta su questa maliziosissima sovrapposizione: da una parte aggredisce i nostri sensi con una prodigiosa disinvoltura e rapidità, che ci comunicano il sentimento di una danza ipnotica e incessante, un passare per le cose con una febbrile eleganza mai priva della consapevolezza di quanto doppie e minacciose esse possano essere; dall'altra ci inchioda alla certezza, struggente e inviolabile, che da esse nessuno possa mai davvero liberarsi. Un contrasto insanabile e palpitante che ne L'Infernale Quinlan può essere ridefinito come tensione tra il potere di una visione, che sembra in ogni momento capace di trasformare nella bellezza di una forma l'immagine del mondo, e la tenerezza rapita di una soggettività atterrita e impotente di fronte al suo mistero. La forma del film ci irretisce con una libertà strepitosa e ingannevole, la sua sostanza ci trascina, quasi inconsapevolmente, in quel luogo dove la rassegnazione, il rimpianto, la malinconia, ci catturano per sempre. E' un luogo ben conosciuto a chi ama i film di Welles. E' il luogo dell'infanzia perduta, di Rosebud, del favoloso mondo degli Amberson dissolto dall'incalzare del mondo industriale, di Falstaff, che per buona parte del film ricorda davanti al fuoco i giorni fausti di un passato troppo recente per essere ricordato con accenti cosi mitici. La poesia dell'Eden perduto è un focolaio nevralgico del cinema di Welles e che Touch of Evil celebra una volta di più col suo finale, quando il corpo di Welles si allontana galleggiando come un capodoglio moribondo nella notte, sulle note della nostalgica pianola di Tanya. Memmo Giovannini |
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