--Il concertismo Angelo Foletto Docente del Conservatorio di Milano Critico musicale del quotidiano "La Repubblica"
La vita concertistica ha subito traumi molto forti, e drastici mutamenti: accontentiamoci di analizzarla con semplicita', partendo dai dati ricavati dalla lettura di un paio di cronologie storiche, relative a societa' concertistiche italiane. Noi parliamo da italiani, e da italiani conosciamo il nostro retaggio storico-culturale: l'essere stati per molto tempo legati ad una vita musicale un po' fagocitata, monopolizzata dal teatro lirico. Pero' questo fenomeno cosi' severamente giudicato soprattutto dalla storiografia idealistica e dalla musicologia di marca anglo-sassone non fu del tutto negativo. Nel senso che quando in Italia nacque una vita musicale pubblica di segno cameristico, un po' per reazione, un po' per provocazione, l'entusiasmo dei neofiti fece recuperare nel giro di pochi anni il tempo perduto. Ci sono le date a testimoniarlo: proprio nella stagione trionfante dell'opera romantica, si incomincio' a proporre come "alternativa" la musica da camera. Un'istituzione storica come la Societa' del Quartetto di Milano venne fondata nel 1864, ma altre simili associazioni erano attive, magari con presupposti meno solidi (Milano era l'unica citta' in cui c'era una vera industria della musica e le attivita' ad essa legate avevano un rilievo, anche occupazionale, non secondario), in quasi tutte le grandi citta' italiane. Tra i fondatori del "Quartetto" c'era Tito Ricordi, l'editore, estensore di una sorta di promemoria-statuto: tra gli intendimenti che dovevano presiedere a questa nuova societa' c'era l'incoraggiamento ai "cultori della buona musica con pubblici esperimenti, fondazione di premi per concorsi e con la redazione di una Gazzetta Musicale". Quindi l'idea della vita concertistica in genere o di questo tipo di vita concertistica, cosi' specifico come quello dedicato alla musica da camera, non era distaccata da altre iniziative.
Questa gia' mi sembra un'indicazione interessante, nel senso che oggi si tende a distinguere le varie cose: una differenziazione, ad esempio, ben presente nel nostro programma. Questo convegno ricostituisce proprio quel tipo di distinzione: c'e' chi parla di concorsi, chi parla di discografia, chi della didattica (per bambini, per gli adulti, nei conservatori...). Rileggendo l'organizzazione di queste giornate si riconosce una radiografia molto precisa di quello che in effetti e' oggi il nostro modo di concepire il fatto musicale: sempre un po' diviso, per specializzazione. Chi si occupa di organizzazione di concerti, sa poco di organizzazione di concorsi - quando se ne interessa, lo fa come manager, con l'orecchio interessato, non come altro modo di "far musica" da organizzatore - e viceversa.
Tra parentesi: in tutto cio' e' facile rilevare da un lato un atteggiamento moralistico spinto - sono effettivamente compatibili oggi, con il proliferare di iniziative organizzative musicali fondate soprattutto sul business, sullo sfruttamento commerciale dell'artista, le due funzioni? - dall'altra un comportamento realistico, fondato sulle constatate diminuite capacita' culturali e di professionalita'. Difficile trovare oggi una persona capace di svolgere al medesimo livello i due incarichi. Del resto perche' a chi insegna, vende strumenti, fa l'intermediario artistico o il critico musicale viene richiesta (e/o contestata, se manca) la competenza specifica, il diploma, l'iscrizione a un albo professionale o altro, mentre non avviene lo stesso per chi organizza concerti o inventa rassegne? Fine della parentesi.
Un secolo e mezzo fa, quando le distanze speculative e fiscali tra amatori nobili e editori "impuri" erano evidentemente meno nette e anzi avevano molti piu' punti culturali di saldatura, si era gia' individuata questa necessita' diversa: creare l'interesse su un tipo di repertorio con il quale il pubblico non aveva una grande familiarita', facendo in modo che attorno a quel repertorio si coagulassero diverse iniziative. Riflettiamo per un momento anche sul termine "esperimenti". Nell'Ottocento "esperimenti" erano i concerti fatti dalle societa' di musica da camera; erano chiamati cosi' perche' avevano qualcosa di applicato, di provocatorio e, se vogliamo, anche di magnificamente precario: non si davano come alcunche' di sicuro ma dovevano provocare l'interesse del pubblico. Tant'e' che questi "esperimenti", la Societa' del Quartetto di Milano, ad esempio, li effettuava di pomeriggio ed erano di durata abbastanza preoccupante se li volessimo paragonare al normale minutaggio di un concerto (sempre piu' corti, quelli di oggi: perche'? e' un bene o un male?) poiche' presupponevano oltre al coinvolgimento diretto dei soci, che all'inizio erano anche gli "attori" protagonisti (ovvero gli esecutori), una partecipazione meno passiva al concerto, sotto varie forme: dibattiti e/o discussioni guidate, forse simili alla formula del cineforum degli anni ruggenti nostri (tanta gente si e' avvicinata al cinema attraverso il doppio atto della visione e della discussione) o qualcosa del genere. In questi "esperimenti" si partiva dall'esecuzione della musica da camera; quella grande, innanzitutto, e la musica da camera, diciamo, di secondo piano ritenuta interessante perche' coinvolgeva piu' strumenti e poteva dare spazio a diversi esecutori (nei primi programmi, il pezzo solistico era raro e quasi sempre collocato come intermezzo tra brani che coinvolgevano dai quattro strumenti in su). Il pianoforte solo, in tutta la fase d'avvio dell'attivita' della Societa' del Quartetto di Milano, ebbe un ruolo abbastanza limitato: quando la serata solistica fu maggiormente praticata, non si andava oltre a un 20-30% dei concerti (come si rileva dall'analisi di alcune annate consecutive), e quelli dedicati al pianoforte mostrano delle curiose indicazioni di repertorio, quasi sempre e quasi esclusivamente limitato soprattutto nei primi anni alle due grandi "B", Bach e Beethoven. Solo con molta lentezza avvengono le successive entrate per autore. Ho controllato anche altre annate per verificare come sono mutati questi rapporti; non cambiarono molto. Il pianoforte solo ha un ruolo non monopolizzatore sebbene progressivamente sempre piu' centrale; alla fine e' un po' colui che rappresenta quel tipo di programmazione concertistica (quest'anno, per esempio, su 23 concerti 7 erano di solo pianoforte, cinquant'anni fa su 14 concerti 5 erano per solo pianoforte), ma senza condizionarla. e' degno di attenzione semmai rilevare come cinquant'anni fa il repertorio fosse piu' vivace, in quanto per esempio era normale suonare i compositori contemporanei e "locali". Walter Gieseking che suonava Dallapiccola credo fosse un interessante sintomo di un atteggiamento nei confronti del repertorio e nei confronti del pubblico che oggi un poco ci manca. Certo, anni fa i programmi iniziavano, quasi tutti, con Bach, l'autore che segnava invariabilmente l'apertura al repertorio, ora naturalmente possiamo immaginare era un Bach rigorosamente pianistico. Quindi Backhaus, Gieseking, Arrau, Lipatti, cinquant'anni fa i pianisti erano questi: tutti avevano invariabilmente il Bach e non era il Bach-Busoni piu' grande, proprio, un Bach "piccolo", "da riscaldamento", fatto al pianoforte. I numeri ci confermano la decisa presenza del pianoforte e l'identificazione del pianoforte in una programmazione concertistica diffusa che ci ha insegnato molte cose.
Oggi pero' queste programmazioni, che continuano ad essere molto presenti e abbastanza seguite, sembra che non abbiano piu' quel tipo di importanza. L'osservazione vale per le programmazioni che possiamo definire "generalistiche" (sono le piu' comuni nelle stagioni concertistiche) ma vale anche in programmazioni piu' specialistiche. Riguardiamo le annate del Festival di Brescia e Bergamo, l'unica rassegna italiana indirizzata esclusivamente al pianoforte: nonostante il riscontro di pubblico e critico costante, che le ha guadagnato un ruolo determinante, c'e' stata una difficolta' recente nel trovare una linea precisa; nel capire se la rassegna fatta a tema, che per tanti anni e' stata il profilo piu' innovativo e importante del festival, poteva reggere a se stessa o il monografismo alla lunga poteva essere un rischio, una consuetudine; e c'era bisogno di qualcos'altro. Oggi il programma sta un po' a meta': una parte a tema e una parte, per cosi' dire, a protagonista, legata cioe' alla presenza di grandi nomi che ovviamente nella maggior parte dei casi firmano impaginazioni non allineate con il tema di testa. A cio' si aggiunga che si e' persa quella dedizione lodevole alla produzione moderna e del Novecento (anche in virtu' d'un coraggioso concorso): questo non e' ovviamente un giudizio di valore, e' una constatazione.
Cosa significa? Significa che evidentemente anche le rassegne specializzate hanno, come dire, la necessita' - per questo stanno cercando il modo - di rendersi piu' interessanti, piu' appetibili. Usiamo pure questo termine che ci puo' fare impressione: non e' molto elegante, ma rende un senso (non secondario) di questo tipo di attivita'. Non si puo' ragionare soltanto per ideali. Quindi il concerto e anche le rassegne concertistiche specializzate soffrono di una contraddizione di base: da una parte sono comunque ancora soggetti ai quali e' assegnato un compito importante nella diffusione di un certo tipo di repertorio e depositari del compito elevato di suscitare nel pubblico un'attenzione non dozzinale (di tenere in movimento la coscienza critica, insomma), dall'altro non sono piu' istituzioni socialmente e culturalmente riconosciute come un tempo. Hanno la sensazione di non essere utili, a rischio di diventare delle ridondanze culturali (col risultato che a fronte di chi si sente umiliato, si moltiplica chi approfitta della situazione non salda, e bara).
Per quali ragioni? C'e' una serie di ruoli/compiti che il concertismo ha piano piano esaurito. Intanto ha esaurito, lo sappiamo benissimo da tempo, il ruolo chiamiamolo cosi' "compositivo": si parla sempre dell'interprete o dell'esecutore ma non dell'interprete-compositore. Quindi, l'esecuzione, il concerto o l'esecuzione come tramite per far conoscere l'autore attraverso la propria musica, non esistono piu'.
Si e' un po' esaurito anche il ruolo "documentario" del concerto perche' il presente oramai e' poco, molto poco presente. Le programmazioni concertistiche confermano un dato imbarazzante da questo punto di vista. La musica del nostro tempo non ha piu' una circolazione reale. Non c'e', non si sente; e se si sente e' sempre per casi eccezionali, e le eccezionalita' non sono necessariamente artistiche ma di tipo virtuale o causate in qualche altro modo. La documentazione sul presente ci sfugge quasi completamente, non fa parte della vita concertistica. Ne ha fatto parte, in maniera politicizzata e un po' demagogica, in anni passati: tutto sommato, possiamo rimpiangere quegli anni in cui c'era demagogia ma almeno si sentiva tanta musica nuova, buona o cattiva che fosse.
E la documentazione sul passato? e' un altro ruolo in buona parte scippato. Ora, non voglio ovviamente portare via lo spazio o mettere i bastoni tra le ruote alla ricognizione storico-statistica di Alberto Spano, ma non c'e' dubbio che la discografia si e' mangiata molta vita concertistica. Non perche' fosse in diretta concorrenza, ma perche' fatalmente si e' appropriata di quello che prima era il compito del pianoforte e dei concerti: far conoscere, a chi non aveva la possibilita' di farlo per conto proprio (in casa, suonando lui stesso o facendolo con amici), il grande repertorio. (Qualche decennio fa la funzione politico-didattica e se vogliamo anche demagogica collaudata per la musica moderna e' stata utilizzata per imporre la "filologica esecutiva" ovvero la cosiddetta "musica antica", che e' stata, ed e', uno dei piu' scaltri e redditizi modi di rinnovare in apparenza il repertorio e la sua utilita' culturale: musiche "vecchie" e suoni "nuovi".)
Si e' perduto, tutto sommato, anche l'immagine del concerto come momento di grande divismo: le vere star non ci sono piu'. Anche qui sospendiamo qualsiasi giudizio morale sul divismo, vediamolo semplicemente come un tramite di comunicazione tra il pubblico e l'esecuzione, tra gli ascoltatori e la musica. Era una comunicazione forte, che aveva un suo valore e poteva servire. Anche se non c'erano sempre le follie di Liszt (che potevano essere appunto suscitate solo da Liszt), erano comunque dei modi di collegare e soprattutto dei modi di "dare" al pubblico, di creare tra il pubblico e l'esecutore un rapporto di fiducia basato sul fascino: naturalmente stava all'interprete sfruttare in maniera buona o in maniera semplicemente commerciale questo tipo di feeling fiduciario (se vogliamo riflettere sul presente, il caso-Pogorelic mi sembra abbastanza eloquente). Qualcuno dira' "ci sono ancora dei personaggi eccezionali", ma oramai sono casi che riguardano quasi sempre artisti che non ci sono piu', anche da poco. L'artista presente "divo" puo' esserlo, ma e' il suo ruolo che non esiste piu'. Io penso a artisti che lo hanno avuto alcuni decenni fa, ma in virtu' di ruoli non propriamente musicali; o perche' erano esuli volontari dal concertismo (Michelangeli, Celibidache, Carlos Kleiber) o perche' seppero sfruttare al meglio lo star system (Karajan, per primo). Questi fenomeni fanno talmente parte della competenza musicale comune che il concertismo non puo' aggiungervi nulla. Nel migliore dei casi, ribadisce.
Naturalmente non ci sono solo i dischi a impigrire... C'e', ad esempio, un'editoria piu' presente, una pubblicistica musicale molto piu' ampia di quanto fosse anni fa (che comprende sia la pubblicistica di tipo saggistico che la pubblicistica, diciamo, piu' di rivista); sono contributi molto importanti e seguiti. Pero' hanno avuto un effetto imprevedibile: invece di ricaricare ancor di piu' l'esecuzione dal vivo di interesse, hanno finito per portargli via dello spazio, e fascino.
Vogliamo chiederci perche' questo succede? Io ho la sensazione che avvenga perche' la nostra condizione culturale e musicale non e' abbastanza stimolata, ne' abbastanza stimolante. Detto in altri termini: il nostro pubblico e' formato nella maggioranza dei casi di analfabeti, e l'analfabeta musicale e' piu' attratto da cio' che sta attorno al fatto musicale che non dal fatto musicale in se'. Paradossalmente preferisce il fai-da-te dell'informazione specialistica che la verifica in sala da concerto: e non parliamo dei discomani che conoscono solo il suono registrato missato e riprodotto. Non sono eccezioni. Niente di male, se non l'analfabetismo: ma la soluzione di questo problema non ci tocca. Riguardera' se tutto va bene le generazioni dei nostri nipoti.
Per questo il concertismo non da' piu' di tanto all'appassionato e, infatti, cosa succede?, il pubblico dei concerti e' diviso in due. C'e' un pubblico vecchio, molto vecchio oppure c'e' un pubblico avventizio, cioe' che viene radunato di volta in volta, attratto da un avvenimento, da una buona campagna di abbonamenti, da un'ottima capacita' di coinvolgere della gente ma che quindi non garantisce la continuita', ne' il rapporto fiduciario ne' la competenza. L'avventizio sara' sempre avventizio, quindi si rinnovera' completamente, non creera' una base solida; e quello vecchio, ahime', e' vecchio quindi si esaurira'.
Questo e' il dato di fatto: a noi che frequentiamo i concerti basta guardare il colore dei capelli. I numeri e le statistiche sanzionano questa preoccupante, constatazione che, credo, puo' essere confermata dai colleghi di Conservatorio. Perche' il Conservatorio, per primo, e' un ambiente, non usiamo nemmeno il termine scuola, che non favorisce il rapporto con il concertismo inteso come rapporto di ascolto riflessivo e "critico" (cioe' consapevole, rigoroso e competente, ma capace anche di infiammarsi) nei confronti della musica e degli esecutori: non crea nuovo pubblico, non allena all'ascolto, non alleva gli appassionati e gli abbonati di domani. Magari il Conservatorio prepara dei futuri concertisti - o si illude di farlo - ma non favorisce per nulla il rapporto col concertismo. Il fatto di andare ad ascoltare, ascoltare criticamente e' sempre difficile. I ragazzi di Conservatorio sono quelli piu' renitenti all'ascolto. e' paradossale. Certo non tutti: sto un po' semplificando. Pero' non c'e' dubbio che e' una percentuale talmente alta che diventa un fenomeno sul quale sarebbe ora di riflettere... Ma quel compito lo lasceremo a chi si occupa della scuola specificatamente: vogliamo fare una scuola in cui si insegni ad avere un rapporto sensato con la musica o soltanto con gli strumenti?
Torniamo al concertismo: cosa gli rimane, come ruolo, oggi? La funzione sociale, cioe' il fatto di creare un momento di aggregazione. Allora questa che e' una constatazione mortificante per chi intende il concertismo come incontro di "menti elette", e' pero' anche un dato da non sottovalutare, da non buttare via. L'altro ruolo che mantiene, parzialmente, e' tutto sommato la funzione documentaria perche' nonostante i dischi, nonostante tutto il resto, la voglia di sentire come una musica suona dal vivo, per qualcuno, esiste ancora: quindi io credo siano questi due i momenti interessanti sui quali si puo' agire.
Per prima cosa, bisogna trovare il modo per far evolvere la "funzione sociale", superando l'immagine positiva del concerto, come fatto di trovarsi, come momento aggregante. Persone "per bene" che si trovano, il che sottintendeva, fino a qualche tempo fa, persone tendenzialmente abbienti. Oggi almeno questa distinzione di censo e' superata: la selezione su basi economiche operata un tempo dal concertismo non c'e' (i criteri economici, tra l'altro, significavano spesso, non necessariamente anche in questo caso, una selezione di tipo diciamo culturale...). Ho volutamente introdotto la locuzione un po' anacronistica e genericistica "per bene" per sottolineare che il pubblico odierno non partecipa alla vita concertistica con motivazioni storiche, economiche o sociali: possiamo andare tranquillamente a ascoltare, qualsiasi musica, in qualsiasi luogo, tramite qualsivoglia "strumento" (le promesse di internet, con partiture virtuali, "ascolti" planetari in contemporanea, eccetera..., come le possiamo considerare?). La base culturale si e' mediamente abbassata: siamo tutti sullo stesso nastro di partenza, a pari assenza di motivazioni comportamentali preventive o ereditarie (come il palco di famiglia all'opera). Nessuno, tanto meno il nostro dna culturale, ci impone di farlo. Quindi la "funzione sociale" puo' essere interpretata in un altro modo, anzi deve inventarsi una strada originale per rinnovarsi. "Torniamo all'antico, sara' un progresso!", scriveva Verdi. Nel nostro piccolo perche' non convincersi che una "nuova" funzione sociale potrebbe essere ancora quella utopisticamente dichiarata da Tito Ricordi nel 1864? Perche' non pensare, oggi, al concerto come momento d'arrivo, non come momento unico; come punto di approdo di un processo di conoscenza musicale iniziato prima e da rinnovare e prolungare dopo? Ripeto. Prima ho citato i cineforum d'antan; ma questa cerimonia pseudoculturale e demagogica, abbondantemente parodizzata da Villaggio-Fantozzi, in un periodo della nostra vita ebbe un senso. Era un momento delicato. Il cinema cominciava a diventare anche cinema di qualita', ma il cinema di qualita' non era ancora un oggetto apparentemente vendibile, con un mercato suo: cosi' si e' creato l'interesse, un'utenza e il mercato. La storicizzazione critica del cinema a livello popolare, molto piu' diffuso, non esisteva: anche i cineforum e le rassegne specializzate sono serviti a gettare le basi ed accrescere un pubblico...
Qualcosa del genere puo' essere fatto sul momento-concerto. A patto che non vengano meno due caratteristiche: qualita' e continuita' delle proposte. Serve a poco dibattere o accendere discussioni critiche in modo episodico o su avvenimenti di scarso peso artistico.
Analogamente puo' essere rivalutata la funzione documentaria. Il ruolo di documentazione e' secondo me ancora decisivo: va riconquistato. L'amico Roberto Furcht, nella sua colta e lucida prolusione, ha parlato di arte come monumento al momento o qualcosa del genere: so che su questa faccenda lui ha idee molto drastiche (e verificate). Ma il dato artistico, ogni piccolo dato artistico che la vita concertistica ci consente di produrre, secondo me si puo' ritrovare documentando. Quindi il "monumento al momento" deve diventare il "documento del/al momento". Testimoniando cio' che avviene, documentando di piu' la vita musicale, in tutti i suoi aspetti. Non soltanto quelli artistici, non soltanto quelli che ci fanno onore; ma non soltanto quelli che fanno scandalo e chiamano i facili strilli giornalistici.
E qui, prima di concludere apro una parentesi. Sarebbe disonesto non aprirla e sarebbe francamente un po' codardo che non lo facessi io, come attuale presidente dell'Associazione critici musicali italiani. Esiste un problema molto grosso fatalmente legato alla vita musicale, in particolare alla vita concertistica (i teatri d'opera e i loro prodotti, che entrano con cifre piu' visibili nei bilanci dello stato, all'opinione pubblica sembrano interessare di piu'), che invece di solito viene un po' staccato: il problema dell'informazione.
L'informazione quotidiana sulla vita musicale e' in grave crisi: ci sono anche ricerche di mercato e statistiche in merito che vi risparmio perche' sono mortificanti per chi scrive e per chi legge (o vorrebbe farlo). Io credo ci sia una ragione di fondo a questa depressione cultural-informativa, che purtroppo tocca tutti i settori che per essere documentati pretendono riflessione critica: e' molto facile da riassumere. La causa primaria di questa involuzione coincide con una fase in cui chi ha in mano le responsabilita' dell'informazione, e' una persona che proviene da un tipo di scuola, nel senso di impostazione culturale, tutt'altro che umanistica; interessata molto alla tecnologia, alla politica, all'economia, al mondo internazionale ma che non ha nessun genere di curiosita' ne' di preparazione di tipo umanistico. O, se ce l'ha, l'ha secondo quella prospettiva distorta e pigra che intende la cultura come un sovrappiu' rispetto alla vita "vera", come un lusso di cui si puo' fare a meno. Quindi non la cultura come anima, e come componente necessaria alla vita, alla crescita del pensiero, della persona. Partendo da un atteggiamento del genere, figuriamoci la musica che e' sempre stata all'ultimo livello (nel migliore dei casi un'attivita' ludica, per stravaganti artistoidi), in che considerazione e' tenuta.
Questo, io credo, sia la causa. L'effetto? L'informazione sulla vita concertistica e' molto, ma molto, carente, troppo episodica e - lo dico un po' a malincuore, visto che parlo della categoria alla quale appartengo - spesso fatta male, e per colpa nostra. Fatta male, perche' fatta di fretta, perche' fatta con delle costrizioni diverse, perche' non ha piu' quel tipo di respiro, di continuita' per cui puo' essere un racconto sulla vita musicale ma finisce per essere spesso un breviario fatto di malavoglia su alcuni momenti che, noi per primi, riteniamo non abbastanza significativi della vita musicale ma di cui ci chiedono di riferire (altrimenti, il primo cronista generico di passaggio dalla redazione, se non l'ha gia' fatto, se ne occupera'!). Nonostante tutto, e senza voler fare un comizio pro domo nostra, documentare dev'essere anche rafforzare l'informazione. Non so come si faccia, sia ben chiaro. Ma per iniziare, si potrebbe forse provare a considerare l'informazione (anche quando non e' come la vorremmo noi: di Piero Rattalino ce n'e' uno) come un aspetto non accessorio, non competitivo (in realta' spesso visto come un "avversario") rispetto alla vita musicale. In un certo senso, con limiti etici e professionali non trattabili, puo' far parte della vita concertistica: informare bene serve alla vita concertistica. A sua volta la vita concertistica puo' e deve accettare non dico dei suggerimenti (altrimenti sembra un qualcosa di poco chiaro, una complicita'), ma certo tenere conto di cosa l'informazione autenticamente "critica" dice. Alcune osservazioni, non certo le arcigne o preconcette censure, possono perfino essere utili. Tutto cio' implica una maturita' "critica" e autocritica che non e' merce comune e una maggiore integrazione e solidarieta' tra settori della vita musicale che hanno sempre difeso con fierezza la propria diversita'.
Quando Tito Ricordi, nel momento solenne (e pratico: era pur sempre un imprenditore) di pensare alle regole fondanti della Societa' del Quartetto di Milano, immagina l'intreccio - oggi diremmo la sinergia - tra concerti, concorsi, l'attivita' editoriale di una Gazzetta Musicale, sappiamo benissimo che fa prima di tutto il suo mestiere di editore quindi non lo santifichiamo (come quando i Furcht organizzano i convegni sul pianoforte: e' parte del loro mestiere). Pero' non e' difficile pensare che dietro a questo progetto ci fosse effettivamente una voglia di allargare l'interesse per la musica eseguita in pubblico; di allargarlo nel modo migliore possibile. Ecco, questo tipo di ampliamento, e' un gesto importante: noi gli dobbiamo dare credito, molta fiducia perche' altrimenti un certo tipo di vita concertistica chiusa in se stessa rischia di dare ragione alla contestazione di John Cage, quando nel 1952 scrisse "4' 33"".
La vita concertistica e' il feticcio residuo di un ruolo e di un rito -il concerto- che non esiste piu' secondo il modello storico, da che ha smarrito (e/o rinunciato) molte delle sue motivazioni fisiologiche e sociali. Dobbiamo stare in guardia: se di questo fenomeno se ne accorge anche il pubblico, la vita concertistica sara' realmente finita. Le tecnologie d'ascolto e di riproduzione bastano e avanzano per saziare un bisogno solo auditivo, di studio o documentario; quindi per esorcizzare questo rischio, occorre considerarla sempre piu' vita che un semplice concerto. Il gioco di parole e' molto semplice e ingenuo, forse, ma credo sia importante capire che dev'essere soprattutto "vita". Se, come spesso accade, i concerti si assomigliano uno con l'altro, puo' essere colpa di chi sta da una parte (cioe' di chi sta sul palcoscenico, davanti ad uno strumento) ma non sara' mai solo responsabilita' sua. Il pubblico ha le sue di colpe, perche' se questo rapporto di dare e ricevere, che e' il momento del concerto, si e' un po' perduto e' ingiusto non sottilineare quanto poco oggi gli ascoltatori diano e chiedano: il pubblico non pretende abbastanza, non gratifica le esecuzioni che lo meriterebbero, non incentiva chi presenta programmi non scontati, non applaude a proposito. La realta' malinconica e' che tutti noi ci siamo un po' appiattiti su certe cose: anche al concerto, come nelle cose della vita, preferiamo trovare delle conferme che accettare delle provocazioni. Invece il far musica in pubblico (come in privato, da autore o da programmatore di concerti altrui) non puo' essere una ratifica culturale, deve essere ogni volta una rigenerazione, un modo di ricreare e di rinascere con la musica.
Pirandello diceva, a proposito del rapporto vita-teatro: "Nessuno, alla fine dei conti, puo' raccontare la stessa storia". A me viene sempre in mente questa frase quando si esce dai concerti, e magari si parla dell'esecuzione ma senza riuscire a distaccarsi dai luoghi comuni, dalle frasi fatte, dal generico perbenismo critico. Non vorrei che il concerto, oggi, diventasse la stessa storia per tutti: in modo da essere spiritualmente tranquillizzante (e facilmente vendibile). Torniamo a fare in modo che il concerto sia "vita" concertistica: solo cosi' diventera' ogni volta un oggetto di piacere, non soltanto la conferma di noi stessi.
* Il presente testo e' la semplice trascrizione dell'intervento e ne mantiene il tono conversativo e improvvisato.
Parlare del concertismo oggi, o della vita musicale, mette un po' d'ansia. Si ha il dubbio di parlare soprattutto del passato: spesso, c'e' addirittura la tentazione di parlarne al passato. Cerchiamo prima di tutto di eliminare questo pericolo, anzi questa scorciatoia un po' autolesionistica. La vita musicale - non a caso si chiama vita - e' la vita dei nostri anni. Ne subisce gli umori (e i malumori), ma rimane sempre uno specchio non infondato: mortificante, a volte, ma reale. Oggi siamo riuniti a parlare di pianoforte, e dell'importanza del pianoforte nella cultura musicale rivolta al pubblico, cioe' il suo essere strumento al centro della vita concertistica, ma e' inevitabile allargare la diagnosi specifica, arrischiando fino a affrontare un discorso piu' ampio e delicato: quello del rapporto tra il pubblico e la musica eseguita. Il pianoforte, sappiamo benissimo, in questi secoli ha avuto un ruolo storico e sociale capitale nel trasformare, in alcuni casi nel creare, un rapporto costante, quotidiano, molto profondo tra la musica scritta e la musica ascoltata quindi eseguita. Ne e' stato il primo grande tramite - il tramite risolutivo - per una serie di ragioni.
Gia' Schumann, che di questo strumento e della vita musicale e' stato forse il primo osservatore capillare, capace di essere sia partecipe che distaccato e scientifico, ne ricordava la grande importanza come strumento di comunicazione; strumento attraverso il quale la vita, e la produzione, musicale poteva diventare un fatto "spettacolare". Mi sembra una considerazione che non ha perso di smalto e che, com'e' riuscito spesso allo Schumann-critico musicale, gioca sull'ambiguita' o la naturale bifrontalita' dei termini (ricordate cosa ci ha insegnato a proposito del virtuosismo, ad esempio?) per innescare la discussione su una questione evidentemente gia' rilevabile allora, e oggi cruciale: quella cioe' del bisogno di comunicare, e dei mezzi per farlo nel modo piu' onesto, oltre che idoneo.
Naturalmente sono successe molte cose dopo e accanto a Schumann (anche molto accanto: pensiamo al ruolo avuto da Clara nel fondare il repertorio concertistico e quindi nell'individuare il nuovo rapporto con il pubbblico). Ma io non voglio affrontare il discorso storico, anche perche' tra gli interventi e gli intervenuti c'e' chi ha il compito di analizzare questa prospettiva. Vorrei fare una riflessione meno scabrosa, partendo da alcuni dati di fatto recenti e che ci dovrebbero aiutare a capire che cosa e' cambiato. Non so fino a che punto ci potranno aiutare, anche, a intuire cosa si potrebbe cambiare o cosa bisognerebbe cambiare. Questo perche' siamo ancora nella fase delle recriminazioni: vediamo cio' che non c'e', piu' facilmente di quanto non riusciamo a immaginare come sostituirlo con qualcos'altro. Pero' le recriminazioni, se non sono fatte in chiave masochistica, possono anche essere utili per individuare i problemi, per accertare le cose che non funzionano piu' o le funzioni che si sono impoverite. Forse partendo dalla ricostruzione di quelle si puo' portare un contributo alla revisione - se non alla ricostituzione di una vita concertistica che ci piaccia di piu'.